“Desideriamo essere capiti, perché desideriamo essereamati, e desideriamo essereamati perché amiamo. La comprensione degli altri è indifferente, e il loro amore è importuno.”
Marcel Proust
Possiamo pensare che la fluidità di genere sia cosa degli ultimi dieci anni, e che possiamo trovarne tracce solo nei testi di Beatrix/Paul Preciado, o nel famoso Middlesex di Jeffrey Eugenides. Nei eye di più falso: senza arrivare a scomodare i classici greci o latini (che pure si risparmiavano poco quanto a scostamenti dal binarismo sessuale), possiamo trovare un vero e proprio inno alla fluidità di genere – o quantomeno di scelta d’oggetto – nelle tremilacinquecento pagine dell’immensa Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.
Libro fin troppo vasto, che scoraggia sicuramente il lettore contemporaneo, la Recherche è ben altro che la serie di peripezie di tanti personaggi ricchi e viziati sullo sfondo della Parigi della Belle Époque. I personaggi di Proust – che da parte sua manteneva una quota non indifferente di duplicità, sia pure sempre ben nascosta – rivelano costanti spostamenti lungo lo spettro di genere. Così Odette, grande amore di Swann nell’omonima sezione del romanzo, non solo lo tradisce con svariati uomini, ma lascia scoprire, provocando il massimo delle gelosia, alcune intimità con altre donne. L’intransigente, solenne, machista Barone di Charlus, il personaggio più sfaccettato del romanzo, è devoto alla defunta consorte, ma allo stesso tempo è reclutatore di amanti (maschi) giovani e vecchi, fino a rivelare un’insospettata vena sadomasochistica negli anni bui della guerra.
In tutto questo il narratore (che, giova ricordarlo, non è Proust ma una sua rielaborazione) continua ad apparire tanto ingenuo quanto risolutamente eterosessuale e binario. Ma è proprio questo suo candore a permettere all’autore di addentrarsi in un labirinto di duplicità e dubbio, con continui cambi di passo e imprevedibili cambiamenti dei personaggi. Che emergono sempre diversi a seconda del contesto in cui si trovano, mutando con il mutare delle coordinate sociali in cui si muovono. È evidente che tutto questo si alimenta delle duplicità, ambiguità e fluidità di Proust (autore) stesso, che sembra far parlare tra loro le tante sfaccettature di se stesso, in una inconsapevole quanto geniale anticipazione di tutte le teorie del “sé dialogico” che sarebbero arrivate quasi un secolo più tardi. A dimostrazione che, come ha detto Bateson in più di un’occasione, scienziati e teorici arrivano sempre arrancando in zone dove gli artisti erano già arrivati, con tranquilla levità, molto prima di loro.
Paolo Bertrando