“Dovunque noi siamo, quel che sentiamo è soprattutto rumore. Quando lo ignoriamo, ci disturba. Quando lo ascoltiamo, lo troviamo affascinante. Il suono di un camion a settanta all’ora. Elettricità statica alla radio. Pioggia.
… La prima domanda che mi faccio quando qualcosa non mi sembra bello è perché penso che non sia bello. E rapidamente scopro che non c’è”
John Cage
John Cage è considerato forse il più importante compositore americano della seconda metà del Novecento. Ha scritto 4’33”, un pezzo in cui il pianista NON suona il piano per quattro minuti e mezzo, costringendo gli ascoltatori a sentire il silenzio e tutti i suoni che quel silenzio contiene.
Ha inventato il piano preparo, una via di mezzo tra pianoforte e percussioni (ne abbiamo parlato qui. Ha scritto composizioni generate con l’aiuto del caso.
Perché parlare di Cage, oggi, e agli psicoterapeuti per giunta? Perché Cage, ultimo di una lunga lista di artisti, nella musica e fuori, ha giocato tutta la sua esistenza sul non dare nulla per scontato, sul creare spazi di ascolto non convenzionali. La questione non è mai stata di far bella musica secondo canoni esistenti, ma di creare il proprio stesso canone: Cage era allievo di Schoenberg, che pare gli abbia detto che era incapace di costruire armonie. Così, invece di intestardirsi o di abbandonare il campo, come altri avrebbero fatto, decise semplicemente di fare un salto di livello. Da lì una musica fuori dall’idea stessa di armonia, che valorizzasse qualunque suono, incluso – per l’appunto – il rumore.
Come i suoi due numi tutelari, Erik Satie tra i musicisti e Marcel Duchamp tra gli artisti, John Cage ha sempre guardato (ascoltato) di traverso: “l’atto di ascoltare è in effetti un atto compositivo”. Questo è un atteggiamento che possiamo tranquillamente definire (per noi) terapeutico. Se non diamo nulla per scontato, significa che facciamo e ci facciamo domande, e che in questo modo possiamo aiutare anche i nostri pazienti a farsene. Poi potranno trovare risposte, o forse fare anche a meno delle risposte. Ma questo sta a loro. Il terapeuta è quello che fa domande, che introduce cornici possibilmente nuove e sperabilmente utili, ma che lascia ai pazienti l’ultima parola.
Cage ha anche sulle emozioni una posizione utile per il terapeuta come noi l’immaginiamo. Spesso la musica è considerata un modo per produrre emozioni, secondo l’idea romantica mai messa in discussione che il compositore deve indurre nell’ascoltatore emozioni specifiche. Cage invece ci dice:
“La mia intenzione è stata, nelle mie ultime composizioni, di non obbligare più nessuno a sentire in un modo particolare. Il sentimento è in ciascuno di noi, non nelle cose esterne. (…) Che due persone abbiano dei sentimenti diversi, è ciò che permette loro di dialogare. (…) E talora, quando parlo, dò l’impressione di essere contro i sentimenti. Ma ciò che non tollero è l’imposizione dei sentimenti.
(…) Preferisco di molto questa nozione di dialogo, di conversazione, alla nozione di comunicazione. La comunicazione presuppone che si ha qualcosa, un oggetto, da comunicare. La conversazione alla quale io penso non sarebbe una conversazione che potrebbe portare agli oggetti. Comunicare è sempre imporre qualcosa: un discorso su geli oggetti, una verità, un sentimento. Mentre nella conversazione nulla s’impone.
È qui che Cage mostra l’atteggiamento che noi consideriamo proprio del terapeuta: non abbiamo “cose”, oggetti da scoprire o emozioni da stimolare; abbiamo processi cui partecipiamo, in cui cerchiamo di aiutare l’emergere di qualcosa di nuovo muovendo le cornici, suggerendo nuovi contesti, piuttosto che imponendo le nostre posizioni. E i risultati possono essere davvero inattesi.”
Ricordo autobiografico:
la sera del 2 dicembre 1977, John Cage
Tenne un concerto intitolato Empty Words (Parte III) al Teatro Lirico di Milano quella sera. Empty Words era un lavoro per voce sola basato sul Diario di Henry David Thoreau, decostruito attraverso l’uso dell’I-Ching, ottenendo così un testo sempre più rarefatto, composto di semplici suoni organizzati secondo un criterio integralmente casuale. Io c’ero. Il teatro era letteralmente gremito di gente giovane, seduta per terra, ovunque (all’epoca i criteri di sicurezza non erano esattamente quelli di oggi). Cage sale sul palco e il pubblico, che si aspettava una specie di rock star, si trova di fronte un maturo signore seduto a un tavolino con una lampada e un microfono, che con tutta calma inizia a salmodiare sillabe incomprensibili intervallati da silenzi.
Ora, gli ascoltatori, dopo un’iniziale semplice perplessità, anziano a rumoreggiare, dapprima dubbiosi, poi sempre più fragorosi, in un crescendo che trasforma la tranquilla serata in un happening caotico, con gente sul palco e qualcuno che affronta fisicamente Cage. Il quale, imperturbabile, continua nel frattempo la sua performance senza fare una piega – salvo quando qualcuno addirittura cerca di sfilargli gli occhiali.
Io intanto sono lì a cercare di ascoltare. Il tutto va avanti per un’ora e mezza buona, in quella che è ormai una cacofonia totale (per chi fosse interessato, è stata pure pubblicata la registrazione integrale). Alla fine, Cage semplicemente si ferma si alza in piedi. E, dopo un istante di silenzio perplesso, esplode un applauso interminabile.
Del resto, in un altra simile occasione (c’ero anche lì), Cage aveva sostituito una conferenza stampa con un altro monologo incomprensibile, questa volta tratto da Finnegans Wake di Joyce. E a chi, alla fine gli chiese che cavolo di strutture musicali pensava di costruire in quel modo, aveva risposto: “I don’t build structures, I ask questions!” Che, in fin dei conti, è proprio quello che fa un buon terapeuta.
Paolo Bertrando
Un pensiero su “LA MUSICA SPERIMENTALE”
Non conosco Cage, o forse consideravo quell’ascolto elitario. Leggendo però della sua ricerca e stile è come se lo ricordassi protagonista di uno dei libri che più mi ha toccato quando leggevo per stare dentro alla storia, abbandonandomi. ”Le voci del mondo” era un piccolo romanzo con uno stravagante quanto geniale Cage, dilaniato da ogni suono nell’infinito, qualunque dilatazione cosmica a cui non poteva negargli d’essere in vita e di tormentargli le orecchie e il suo silenzio, e a cui doveva riconoscergli ogni suo sentimento. Un uomo così non poteva che vivere nascosto in un luogo decadente maledetto da Dio e dal cambiamento.
Ma un luogo così non è la musica sperimentale; vicino a Dio per attributo, rivolta al cambiamento per piacere dei sensi.
Più che al rumore o al caso come Cage, penso a quanto la musica abbia stranezza di essere ascoltata nell’unità del tutto, letta per accumulo, vista per strati, contemporaneamente e senza esclusione di ridondanze. Sempre negli stessi anni Albert Ayler era bruciato in fretta: con la sua banda di ottoni e legni era riuscito a raggiungere uno stile compositivo che per me era magia: dalla cacofonia che apriva il brano, tutti liberi nelle proprie disarmonie, lentamente raggiungevano sincronie ritmiche e apice armonico, trovando eccitazione in una linea melodica perfetta per l’intera banda da troncare l’esibizione e lasciare al silenzio dominio di espandersi, restituendo agli ascoltatori continuità di quel brano dentro le loro orecchie….in quel silenzio del vinile che generava l’ascolto come se il brano proseguisse in un altro luogo.
Il rumore è quella dilatazione grezza sotto le macerie, che attende d’essere captata da un orecchio rivolto all’esterno e disposto a tradurre in musica dentro. Senza essere forzato perché ci appartiene. Come un’allucinazione che non potrà mai essere negata.…o il racconto in terapia che quando ti persuade lo prosegui dentro.
Avevo una maestra polacca con le dita deformate dall’artrosi ma che sapeva alzare con dolcezza ogni tasto alle corde (i martelletti salgono alle corde). Lei offese i miei tentativi di eseguire con la sua stessa compostezza gli esercizi di Bartok dicendomi che facevo solo rumore. Non ricordo il suo nome e forse non l’ho mai trattenuto. Lei non seppe dare ascolto ai miei tentativi, io non l’avevo dentro (il mio 4’33’’reverse).
I commenti sono chiusi.