Diretto da Ruben Ostlun, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2017, a parer nostro è un film irriverente e molto interessante. Per apprezzarlo, si deve volgere lo sguardo e l’interesse alle dinamiche relazionali e ai processi che le sottendono. Occorre, inoltre, non distogliere mai lo sguardo dal contesto più ampio in cui sono immersi: il rischio è di trovarlo noioso e incomprensibile se ci si sofferma sui singoli contenuti. Infatti potrebbe sembrare un insieme di scene scollegate le une dalle altre che poco contano rispetto alla storia raccontata.
“Come in un museo si passa da una sala all’altra, godendo del momento ma non avendo bisogno di un filo conduttore che dia un significato collettivo alle opere, così in The Square assistiamo a una gag dopo l’altra, senza che queste impattino in nessun modo sul significato del film.”
Luca Ciccioni
La trama racconta la storia di Christian curatore di un museo d’arte contemporanea di Stoccolma che decide di accogliere una nuova istallazione di una artista argentina: The Square. Si tratta di un piccolo spazio quadrato all’interno del quale tutti hanno gli stessi diritti e doveri. L’opera d’arte vorrebbe quindi rappresentare i più alti valori dell’umanità: l’attenzione verso l’altro, la fiducia, la comprensione e la condivisione. Purtroppo Christian affida la promozione della mostra ad un’impresa di pubbliche relazioni, la cui strategia di marketing risulterà fallimentare. Inoltre, anche la strategia utilizzata per recuperare il cellulare rubatogli qualche giorno prima risulterà inefficace e dannosa al punto che la sua vita verrà in qualche modo sconvolta
La trama racconta la storia di Christian curatore di un museo d’arte contemporanea di Stoccolma che decide di accogliere una nuova istallazione di una artista argentina: The Square. Si tratta di un piccolo spazio quadrato all’interno del quale tutti hanno gli stessi diritti e doveri. L’opera d’arte vorrebbe quindi rappresentare i più alti valori dell’umanità: l’attenzione verso l’altro, la fiducia, la comprensione e la condivisione. Purtroppo Christian affida la promozione della mostra ad un’impresa di pubbliche relazioni, la cui strategia di marketing risulterà fallimentare. Inoltre, anche la strategia utilizzata per recuperare il cellulare rubatogli qualche giorno prima risulterà inefficace e dannosa al punto che la sua vita verrà in qualche modo sconvolta
I temi su cui noi ci siamo soffermate sono due. Il primo riguarda lo statuto dell’opera d’arte nella modernità. A tal proposito è interessante prendere in analisi il dialogo d’apertura del film. Il protagonista partecipa ad un’intervista dove gli viene chiesto il significato di un estratto dal sito web della nuova mostra del museo di arte moderna presso il quale è il curatore dell’esposizione artistica. Citiamo il film: “esposizione/non esposizione, una conversazione serale che esplora le dinamiche dell’esponibile e le costruzioni della sfera pubblica nel sight/non sight di Robert Smithson. Dal non sight al sight, dalla non esposizione all’esposizione qual è il topos dell’esposizione/non esposizione nel momento della mega esposizione?”. Tutto ciò viene spiegato con una domanda: “se per esempio mettiamo un oggetto nel museo, questo può rendere quell’oggetto un pezzo d’arte?”.
Non possiamo non essere invitati al parallelismo con la terapia per due motivi. Il primo riguarda il contesto in cui è inserito un messaggio. Ci ricorda tanto l’affermazione Batesoniana di “questo è un gioco” che di per sé ci permette di entrare nel livello della metacomunicazione: “questa è un’opera d’arte perché è inserita in un contesto artistico e perché, forse, vuole trasmetterci un messaggio”.
Cos’è l’arte? Quando possiamo dire che qualcosa è arte? E allo stesso modo cos’è la terapia? e quando possiamo dire di stare facendo terapia?
La seconda è che non c’è una risposta univoca: messaggi, contesto si fondono nella cornice della relazione che permette di dire: “questa è una terapia” e “questa è un’opera d’arte”, sempre e comunque per me/per noi nella dimensione temporale del qui ed ora.
Il secondo tema per noi molto interessante è quello dell’equivoco. Sembra che i messaggi e l’intenzione comunicativa del soggetto vengano costantemente fraintese dall’altro. I soggetti dialoganti infatti sono inseriti all’interno di contesti e sistemi che trasformano costantemente il contenuto del messaggio, sembra che tutto sfugga di mano e non si capisce come si è potuta creare una certa situazione. La nostra opinione è che in realtà manchi l’ascolto, manca totalmente la consapevolezza che c’è un altro che ascolta, un altro che ha le proprie premesse, pensieri , emozioni. Sembra esserci la volontà di dire ma non quella di essere compresi e di comprendere la risposta altrui, cosa comprenderà l’altro? Come risuonerà in lui il mio messaggio? A chi desidero indirizzare il mio messaggio? Con quale fine? Ragionando in questi termini ci domandiamo se persino la propria consapevolezza, di ciò che si vuole dire e di come stiamo, sia presente nei protagonisti di questo film.
Grazie al sapiente e strategico uso dell’ironia il registra ci spiazza e ci invita alla riflessione, anzi alle molteplici riflessioni che quest’opera può suscitare in ciascuno di noi, proprio come un’istallazione artistica in grado di suscitare diversi significati in base allo sguardo personale. L’ironia e l’irriverenza di questo film sono certamente le caratteristiche che più abbiamo apprezzato, in grado di colpirti emotivamente al punto di trasformare una risata in vergogna. Sì perché il paradosso di alcune scene è inevitabilmente esilarante ma al contempo contiene tutta la tragedia di alcune dinamiche della società attuale.
Valentina Crimella e Marina Gabrieli